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Giulia e Silvia, sei mesi tra i gorilla

Sono tornate in Italia dopo un’esperienza straordinaria: 6 mesi nel cuore dell’Africa a studiare i gorilla. Dell’avventura delle studentesse Giulia Bardino (Scienze Biologiche alla Sapienza di Roma) e Silvia Miglietta (Ecobiologia alla Magistrale, sempre a Roma), parla oggi…

Sono tornate in Italia dopo un’esperienza straordinaria: 6 mesi nel cuore dell’Africa a studiare i gorilla. Dell’avventura delle studentesse Giulia Bardino (Scienze Biologiche alla Sapienza di Roma) e Silvia Miglietta (Ecobiologia alla Magistrale, sempre a Roma), parla oggi anche il Corriere della Sera. Nei giorni scorsi, di ritorno dall’Africa, sono venute a trovarci al WWF, e ci hanno raccontato la loro esperienza di studio sul campo dedicato ai gorilla di pianura nella Riserva Nazionale di Dzanga Sangha, nella Repubblica Centrafricana, dove è in corso il progetto WWF di “abituazione” dei gorilla.
In media ogni giorno Giulia e Silvia trascorrevano 4 ore con i gorilla (condizioni meteo permettendo). Una fantastica opportunità che però aveva il suo prezzo: per raggiungere il luogo in cui si trovavano i gorilla le camminate erano lunghe e faticose (anche un paio di ore), a seguito degli spostamenti giornalieri dei 3 gruppi seguiti. “In più – raccontano- dovevamo seguirli per tutto il tempo del turno: se eravamo fortunate dormivano o passavano gran parte del tempo sugli alberi a mangiare frutta, altri giorni camminavano quasi ininterrottamente fermandosi solo ogni tanto per riposare, mangiare e (soprattutto i giovani) per giocare.  Grazie ad un computer portatile raccoglievamo informazioni sulle attività dei gorilla, sul comportamento e sulle abitudini alimentari”.
La loro dieta è quasi esclusivamente vegetale, perlopiù frutta, foglie e steli, a parte le larve di termiti, di cui sono ghiottissimi, e qualche altro insetto. “Per raggiungere alcuni frutti li abbiamo visti arrampicarsi in cima ad alberi alti anche 50 metri”.
Al campo le due studentesse-ricercatrici hanno vissuto in simbiosi con i Bayaka, una popolazione di cacciatori-raccoglitori che dipende dalla foresta: “la conoscono meglio di chiunque altro e ogni giorno ci aiutavano a rintracciare i gorilla e a orientarci nella foresta”.
Giulia e Silvia seguivano in particolare tre famiglie, che prendono il nome dal “Silverbeck” (il maschio del gruppo): i Makumba e i Mata a Bai Hokou, e  i Mayele a Mongambe . Hanno vissuto separate in due campi, potevano comunicare tra loro solo tramite radio. Si vedevano solo una volta al mese al cambio di campo: infatti ogni mese chi era a Bai Hokou andava a Mongambe  e viceversa in modo che ognuna avesse la possibilità di lavorare con tutti e tre i gruppi di gorilla. Per l’analisi dei risultati ci vorranno diversi mesi di lavoro: “speriamo di farne una pubblicazione scientifica”.
“L’immagine che mi è rimasta impressa è quando andai a Mongambe il primo giorno, e lì che ebbi il primo impatto emotivo con i gorilla: c’erano molti giovani gorilla e per la prima volta non mi sentivo di infastidirli né di passare inosservata, ma mi osservavano incuriositi guardandomi negli occhi! Nonostante avessi già visto il gruppo di Makumba e di Mata a Bai Hokou, è lì, a Mongambe, che ho capito che il mio gruppo preferito sarebbe stato quello di Mayele. – racconta Silvia – . E’ successo anche a Bai Hokou con Malui, una femmina adulta del gruppo di Makumba nonché mamma dei due gemellini Inganda e Inguka, nati qualche mese prima del nostro arrivo in Africa. Un giorno ho incrociato il suo sguardo e non ho potuto trattenere le lacrime, mi sentivo onorata di poter guardare negli occhi un animale così straordinario e di essere accettata da loro, seppur con sguardo guardingo, come se fossi una di loro”. Questi animali in pericolo di estinzione vengono ancora oggi purtroppo uccisi dai bracconieri, che alimentano così il commercio della loro carne. Un episodio triste è capitato proprio durante la loro permanenza nella Riserva: ”Un giorno io e Giulia eravamo rimaste al campo,in quanto giorno di riposo, quando un assistente presente al campo ci ha avvertito che un gorilla era stato colpito da un bracconiere mentre la nostra supervisor, la primatologa Shelly Masi, era in foresta con i gorilla. Quel gorilla era Sosa e purtroppo è morto sul colpo. Quando mi sono resa conto dell’accaduto sono stata malissimo, era tra i miei gorilla preferiti, mi ero affezionata a lui, era molto “socievole” aveva poco timore dell’uomo e tra l’altro il giorno prima avevamo seguito lui per la nostra ricerca”. Il bracconiere è stato poi catturato e condannato a 3 anni di carcere, poi ridotti alla metà. La notizia ha fatto scalpore in tutta la Repubblica Centrafricana e si spera che abbia risvegliato nella popolazione locale un po’ di consapevolezza sull’importanza di preservare questa specie. Purtroppo però l’azione dei bracconieri continua imperterrita: I bracconieri operano anche con i lacci, utilizzati perlopiù per la caccia di diverse specie di antilopi ma che spesso intrappolano gli arti dei gorilla provocando a volte ferite profonde che costringono i responsabili del progetto a far intervenire veterinari specializzati. A Samba, ad esempio, mancano 4 dita di una mano; probabilmente la causa è stata proprio di un laccio. Il controllo è affidato alle ecoguardie, ranger di foresta che teoricamente dovrebbero pattugliare la zona, ma la corruzione è pressante e va di pari passo con la povertà di quel paese, per cui gestirli in maniera adeguata non è opera facile.
 “C’erano dei momenti in foresta in cui i gorilla si riposavano – racconta Giulia – . Noi continuavamo a prendere i nostri dati facendo più silenzio possibile. Quelli erano i momenti in cui gli animali si rilassavano e iniziavano a interagire con noi. C’è stato un momento in cui ero seduta e mi sono ritrovata Tembo, il giovane maschio figlio di Malui e Makumba, che si è avvicinato ad una distanza forse di due metri, e ho capito che stava giocando con me, perché ha iniziato a muovere le foglie di fronte a me, a spezzare ramoscelli…Ero seduta quasi al centro e in quel momento ho avuto davvero l’impressione di far parte del loro gruppo. Non ho avuto timore, se non quello di essere toccata: è una cosa che va assolutamente evitata perché potremmo in teoria trasmettere loro qualsiasi tipo di malattia.
A volte infatti i gorilla caricavano minacciosi, accompagnando la carica con vocalizzi sempre più forti. “Shelly, la nostra supervisor, qualche volta mi rimproverava – racconta Silvia –  ‘dovresti essere un po’ più impaurita in certe circostanze’. Lei ci ha insegnato anche a distinguere le varie vocalizzazioni dei gorilla, ad esempio quelle del silverback verso la femmina in estro o quelle che servono agli individui del gruppo per tenersi in contatto durante i vari spostamenti”.
Nei loro sei mesi di permanenza in Africa Silvia e Giulia sono state davvero fortunate in quanto è stato un periodo ricco di nascite: oltre ai due gemellini nati qualche mese prima del loro arrivo sono nati due piccoli da due femmine del gruppo di Mata (ancora non del tutto abituato alla presenza umana) nei mesi di luglio- agosto e, una settimana prima del ritorno in Italia, Duma, una femmina del gruppo di Mayele a Mongambe ha dato alla luce il piccolo Kenga. Silvia ha avuto la fortuna di vederlo con il cordone ombelicale ancora attaccato: “Sapevo che Duma era incinta- racconta Silvia- aveva una pancia enorme e nell’ultimo periodo la vedevo spesso assopita. Il 4 novembre avevo il turno di pomeriggio, mi sono incamminata con i Bayaka verso la foresta quando incontriamo uno dei Bayaka del turno della mattina che incomincia a nominare molto spesso Duma così ho chiesto cosa fosse successo e loro mi hanno risposto che Duma aveva partorito! Ero felicissima di poter assistere all’inizio di una nuova vita dopo che qualche mese prima in quello stesso campo avevo vissuto la morte di Sosa. Duma è molto abituata alla presenza umana e nei giorni successivi ho avuto l’opportunità di vedere l’estrema attenzione di una madre gorilla nei confronti del suo piccolo e nello stesso tempo con quanto amore  si prende cura di lui. Inoltre ho notato con quanta curiosità i fratellini toccavano e osservavano il nuovo nato, proprio come accade nella specie umana. Mi auguro che il piccolo Kenga e tutti gli individui che ho conosciuto crescano sani e forti  e chissà, magari tra qualche anno, di tornare lì e rincontrarli”.
 

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