Il ClimateChange Report 2018 del WWF internazionale è un autorevole documento, di fatto la più comprensiva analisi finora prodotta, che mira a documentare gli impatti sulla biodiversità, e in particolare il rischio di estinzione provocato dal cambiamento climatico. Lo studio prende in considerazione 35 aree di priorità del WWF e un amplissimo spettro di specie prioritarie di piante e vertebrati terrestri e marini. La ricerca, condotta per il team Scienza e Politica del WWF-UK, rivela una serie di scenari attendibili e particolarmente critici sulla sopravvivenza a breve e medio termine di molte di queste specie e dei loro habitat.
Si tratta prevalentemente di ecosistemi tropicali che conservano una quota rilevante della biodiversità della biosfera, e non includono il nostro paese e le due principali ecoregioni che lo caratterizzano, quella alpina e quella mediterranea. Comunque, anche in questi ambiti geografici, molto lavoro è stato svolto per delineare scenari utili alla previsione dell’impatto dei cambiamenti climatici sui nostri ecosistemi.
Tra le indagini effettuate in Europa da vari centri di ricerca mi piace ricordare gli studi condotti dal team di zoologi dell’Università di Roma “Tor Vergata”. In queste ricerche ci siamo concentrati soprattutto su farfalle e altri organismi eterotermi, verosimilmente più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Le dinamiche temporali di espansione/regressione dell’areale di distribuzione sono state studiate sia attraverso modelli predittivi di nicchia ecologica, come quelli utilizzati nel Report basati su dati georiferiti di presenza, sia attraverso modelli di filogeografia molecolare, basati su sequenze di DNA. Il nostro approccio predittivo è stato proiettato più spesso al passato che non al futuro. Sappiamo molto del Pleistocene, dove la firma e la geografia dei cambiamenti climatici sono ben conosciute. La lezione del passato è la migliore guida per interpretare il futuro, dove i livelli di declino ed estinzione locale delle specie dipendono strettamente dagli scenari più o meno pessimistici sull’incremento della temperatura globale utilizzati nei modelli climatici.
Molte delle nostre ricerche hanno interessato le farfalle montane come i Parnassius e le Erebia, in cui si osserva già da qualche anno la tendenza alla progressione verso le alte quote. Le farfalle sono il barometro di tutto il resto delle comunità alpine, e ovviamente la biodiversità montana degli Appennini è a rischio maggiore rispetto a quella delle Alpi. Quest’ultime possono infatti contare su quote ben più elevate. Ovviamente gli scenari predittivi cambiano a seconda dell’ecologia delle farfalle. In una ricerca di alcunii anni addietro su specie di Direttiva Habitat presenti in Italia Centrale: Maculinea arion, Melanargia arge, Euphydryas provincialis, Parnassius apollo, P. mnemosyne, e Zerynthia cassandra, siamo andati a valutare l’efficacia nella conservazione, a medio termine (fino al 2060), del sistema di aree protette, ottenendo risultati in chiaroscuro, fortemente dipendenti dall’ ecologia delle singole specie. Così ad esempio, Z. cassandra e M. arge, specie endemiche legate ad habitat piuttosto diversi, mostrano percentuali di areale tutelato molto basse (<30%) rispetto alle altre specie, prevalentemente legate ad habitat montani (>60%).
In un altro nostro studio, appena concluso, si affronta esplicitamente il tema delle faune montane intese come comunità ‘insulari’, e quindi interpretabili in base alla teoria dell’equilibrio di Mc Arthur e Wilson, teoria che ha profondamente influenzato la ricerca ecologica e l’approccio scientifico alla conservazione. La finestra di tempo considerata è quella dell’Olocene a partire da 11.000 anni fa fino ad oggi, con una scansione millenaria dove, con piccole eccezioni, il clima è andato progressivamente migliorando. Gli ecosistemi alpini sono di fatto confinati alle sommità delle montagne, assimilabili ad isole tra loro separate da altre tipologie di habitat. Sono stati analizzati cinque gruppi di insetti (3 famiglie di coleotteri, gli ortotteri e le farfalle diurne), per un totale di circa 130.000 record e di 1.077 specie. Queste ultime sono state separate in 2 gruppi caratterizzati da diversa capacità di dispersione. Come previsto dalla teoria, i buoni dispersori hanno risposto ai cambiamenti ambientali stabilendo una serie di equilibri transienti tra estinzione e colonizzazione. Al contrario, le dinamiche delle specie a bassa capacità dispersiva, attere (prive di ali) o altamente specializzate, risultano spiegate dal modello di non equilibrio, dove prevale l’estinzione sulla immigrazione e la colonizzazione di nuove specie. Ciò suggerisce che le specie alpine con basse capacità di dispersione subiscono (e verosimilmente subiranno) gravi perdite di biodiversità associate al riscaldamento climatico. Questo tipo di studi pone le basi per quantificare la sensibilità dei singoli organismi ai cambiamenti guidati dal clima, e offre un importante supporto alle scelte da attuare per la conservazione.
Un ultimo commento: le tecnologie analitiche in continuo sviluppo facilitano largamente l’uso dei modelli predittivi sulla distribuzione e demografia delle specie, ma i modelli possono essere più o meno attendibili a seconda della qualità e densità dei dati di occorrenza delle specie. La necessità di sviluppare grandi dataset sulla biodiversità, con record georiferiti e cronoriferiti, è oramai ineludibile. Alcuni progetti come ‘Nextdata’, promosso dal CNR, operano in questa direzione. Presso il Ministero dell’Ambiente è stata da tempo istituita la banca dati del Network Nazionale della Biodiversità. E’ necessario implementarla, promuovendo la digitalizzazione dei dati associati ai milioni di campioni animali e vegetali conservati nei musei, un vero tesoro di informazioni che descrivono lo stato della biodiversità italiana nei decenni passati. E’ molto arduo fare previsioni attendibili sul futuro se si ignora il passato! Riguardo al presente, il proliferare di iniziative sulla digitalizzazione dei dati di biodiversità, che promuovono la collaborazione di ricercatori e cittadini in progetti di Citizen science, è certamente segnale di buon auspicio.
Valerio Sbordoni,
Comitato Scientifico WWF Italia,
Accademia Nazionale delle Scienze,
Università di Roma “Tor Vergata”